Daniel Stein traduttore

Daniel Stein traduttore
Ludmila Ulitskaya
Bompiani, 2010, pp. 558

 “Non sono un vero scrittore, e questo libro non è un romanzo, ma un collage. Taglio con le forbici pezzetti della mia vita, della vita di altre persone, e incollo “senza colla/ un vivo racconto su frammenti di giorni”.

In queste parole, scritte alla sua agente letteraria Elena Kostioukovitch, la scrittrice russa Ludmila Ulitskaya riassume la stesura del suo ultimo romanzo: 558 pagine, tra la vita reale e l’invenzione, che le hanno fatto assegnare il Men Prize nel 2009. Perché, in realtà, una vera scrittrice la Ulitskaya lo è eccome, tanto che viene annoverata tra i dieci scrittori più importanti al mondo, paragonata ai classici russi e con le sue opere ha già vinto innumerevoli riconoscimenti: in Germania il Premio Medicis, in Russia il Booker Prize e il Big Book, in Italia i premi Acerbi, Penne e Grinzane Cavour. Bompiani la pubblica, nella traduzione di Emanuela Guercetti, per far conoscere anche al nostro pubblico la storia di Daniel Stein, che, lavorando come traduttore per la Gestapo, riuscì a far fuggire 300 ebrei dal ghetto di Mir in Bielorussia. Al secolo, Daniel Stein è l’ebreo polacco Oswald Rufeisen, che la scrittrice ha conosciuto davvero: figura carismatica non solo per il suo impegno durante la Seconda Guerra Mondiale, ma anche per la sua fede. Oswald/ Daniel, infatti, si converte al cattolicesimo, per concludere poi la sua vita in Israele, dove fonda, ad Haifa, una sua Chiesa giudaico-cristiana.

Scrivere la storia del traduttore e poi frate non è stato facile per la Ulitskaya: non solo per la fatica materiale di mettere insieme una quantità infinita e disomogenea di documenti (lettere, brani di rassegna stampa, documenti segreti del KGB e del clero, verbali di polizia, brochure turistiche, appunti, conversazioni, voci registrate su nastro, telegrammi, lezioni di teologia e discorsi), ma anche per la difficoltà di affrontarne i contenuti: “Io odio la questione ebraica”, confida infatti alla sua agente al termine della terza parte del libro, “è la più ignobile questione della storia della nostra civiltà. Deve essere abolita come fittizia, come inesistente. Perché tutti i problemi umanitari, culturali filosofici – per non parlare di quelli puramente religiosi – girano sempre intorno agli ebrei?”.

In questo romanzo, la scrittrice russa approfitta dunque per trasmettere al lettore la sua personale concezione dell’ebraismo e della fede, attraverso la figura di Daniel, la cui religiosità consiste nel negare i dogmi di troppo e nel propugnare un ritorno a una vita di amore, fratellanza e buon comportamento, in cui ognuno può trovare una sua personale maniera di cercare Dio. La moltitudine di personaggi che incontriamo nelle pagine fitte di nomi (a cominciare da Ewa, nata in una foresta innevata nell’Est e poi approdata in pieno mondo occidentale, a Boston, da cui apre il romanzo nel 1985) rispecchia gli incontri che ciascuno può fare nel corso di una vita; incontri che in questo caso, in qualche modo, ruotano tutti intorno alla figura di Daniel il traduttore. Il percorso della Ulitskaya non è cronologico: dagli anni Ottanta ci si sposta rapidamente al 1946, al 1959 e poi ancora al 1996… I salti temporali in avanti nel tempo e all’indietro, e le testimonianze degli innumerevoli personaggi, un po’ confondono il lettore, ma anche l’autrice: “Un’enorme quantità di materiale si affastella, tutti chiedono la parola, e fatico a decidere chi lasciar emergere in superficie, con chi temporeggiare e chi mette semplicemente tacere”, confida Ludmila alla sua agente. Ma la ricompensa, alla fine della lettura, è grande: per l’autrice, quella di essere riuscita a trasmettere la sua visione del cristianesimo; per il lettore, la consapevolezza di trovarsi di fronte a un unicum letterario.