Questo è un libro straordinario, nel senso di fuori dall’ordinario. Un romanzo fantastico, anche perché affronta argomenti che più di fantasia non potrebbero essere. Ed è un’opera geniale, perché chi mai, se non un maestro della scrittura, potrebbe riuscire a portare avanti, con coerenza, un intreccio intricatissimo, popolandolo per di più di decine e decine di personaggi? Non solo: nessun personaggio è mai quel che sembra. Quasi nessun personaggio è mai chi sembra. E solo negli ultimi capitoli potremo sapere chi sia davvero il protagonista, perché sin dall’inizio arriverà in scena – non per colpa sua, ma, come scopriremo, per sua volontà – sotto mentite spoglie. Non basta: l’Eroe, che chiameremo A. B., incarnerà, per una settimana, persone sempre diverse; per giunta anche più d’una – o una stessa più volte – in una sola giornata. E queste persone troveranno il modo di comunicare tra loro, ma al loro risveglio al mattino ancora non lo sapranno. Alcune moriranno ogni giorno, ma non ci sarà bisogno di trasportar via i cadaveri in carrozza, perché, prima o poi, torneranno vive. Ce n’è abbastanza per incuriosire e intrattenere un lettore per molte ore di suspense, e anche per dare filo da torcere al migliore degli scrittori.
Stuart Turton, alla sua prima prova letteraria, si rivela quindi altrettanto forte e determinato ad affrontarla dei suoi personaggi, che lottano, ciascuno a suo modo, per ottenere i propri scopi, non sempre nobili, e soprattutto per salvarsi la vita. La cornice che li contiene è la classica dimora inglese circondata dal verde (in questo caso, però, non amene colline ma un’infida foresta densa di misteri e pericoli), Blackheath House. Apparente pretesto per riunirli è una grande festa in onore di Evelyn Hardcastle, figlia dei proprietari, appena ritornata dalla Francia. In realtà, dietro le esistenze dorate degli ospiti di Blackheath ci sono tragedie, illegalità, drammi, maldicenze, abusi, che si paleseranno nel corso delle giornate, e persino delitti, che al protagonista toccherà scoprire, con l’auto a volte dei suoi “rivali”.
Leggendo Le sette morti di Evelyn Hardcastle il lettore pensa di essere finito in un incubo alla Edgar Allan Poe, che si trasforma in un giallo classico alla Agatha Christie, ma anche in un enigma della camera chiusa, perché le circostanze in cui vengono compiuti gli assassini appaiono a volte impossibili. Ed è forte pure la sensazione di star assistendo a una versione gialla degli Hunger Games, gioco al massacro in cui ci si scontra in base a regole, anche scorrette, e il vincitore non può che essere uno. L’impresa di A. B., l’Eroe innocente che sfida il destino creato per lui da entità superiori, la cui identità non è dato conoscere perché indossano una maschera, rappresenta la lotta del Bene contro il Male e costituisce per Turton, come si capirà alla fine del libro, il pretesto per far riflettere sui concetti di pena, redenzione e perdono: a ciascuno può essere concessa un’altra chance, ma bisogna meritarla. Siamo tutti artefici della nostra vita: “Sono state le nostre decisioni a condurci qui. Se questo è l’inferno, ce lo siamo costruito con le nostre mani”.
Le sette morti di Evelyn Hardcastle, Stuart Turton, Neri Pozza, 2019 (ed. orig. 2018), “I Narratori delle Tavole”, 2019, pp. 448